Un disco. Ma anche un romanzo. Si intitola “Ho bisogno di aria” questo nuovo lavoro del cantautore abruzzese anche se, a detta anche sua, la canzone d’autore non è la più gettonata oggi. Figlia di quello stampo anni ’70 da cui provengono i soliti grandi De Gregori, Fossati, Guccini e compagnia cantando, Paolo Tocco pubblica per IRMA Records un terzo disco assai intenso e ricco di spiritualità in cui prima delle note arriva la rabbia, arriva la verità, arriva la voglia di levarsi via le maschere e tornare alle origini.
“Oggi la canzone d’autore di stampo classico vive un limbo di estraneità. Da una parte c’è il finto pop della televisione, dall’altra tutto il resto in cui troviamo anche – ma non solo – la bellezza poetica di un testo che diventa a tutti gli effetti espressione letteraria. Ma tutto questo oggi non va di moda se non per farci belli e culturali citando il Nobel dato a Dylan. Oggi per ascoltare le canzoni di un cantautore ci vuole tempo, dedizione e tantissima curiosità. Oggi invece siamo figli dei social e dei Like…”
Sono temi scottanti che portano l’artista abruzzese a scagliarsi contro un certo modo di vivere. Nella title track dell’opera il grido di ribellione è assai deciso (forse il primo momento della sua carriera in cui la voce vien fuori con importanza lasciando dietro una scia di intimismo e riflessione). Ma anche una denuncia poetica come la meravigliosa “Arrivando alla riva” o la scomodissima “Bella Italia” che probabilmente inchioda le spalle ad un paese fatto di tutti noi inseriti in un sistema del tutto discutibile.
“Sono temi che ormai rispecchiano delle mode per quanto sono divenuti frequenti da sentire e da fare. I movimenti del ’77 – per esempio – ricordano un’Italia fatta di uomini e di donne che scendevano in piazza a costo della propria incolumità per manifestare idee e cercare il cambiamento. Oggi? Oggi i giornalisti pensano ai Talent e gli italiani pensano ai selfie da mettere in rete. Non sono un moralizzatore o uno che vive diversamente. Le critiche mi appartengono tanto quanto queste canzoni. Sono uno specchio di quello che vedo attorno, nel mio vissuto, nel mio stretto raggio che riesce a graffiare la pelle.”
Una musica quella di “Ho bisogno di aria” che non bada all’estetica e non cerca la perfezione come veniva fuori nella precedente pubblicazione “Il mio modo di ballare”. Il suono di questo disco – stampato anche in vinile – è un suono d’istinto, spesso registrato – come dicevamo – dal vivo, in presa diretta, lasciando ampio spazio alla parola e al suo messaggio.
“Con Danilo Florio (violinista) e Amedeo Micantoni (chitarrista e produttore assieme a me di tutto il lavoro) abbiamo scelto di investire tempo in questa direzione, sul contenuto più che sulla forma. A differenza de “Il mio modo di ballare” questo è un disco che suona esattamente come come siamo noi, un suono che ci somiglia… insomma è quello che ascolti dal vivo senza maschere, senza fare i supereroi, senza inventarsi niente. Acqua e sapone.”
E infine un romanzo. “Ho bisogno di aria”, edito da Lupieditore.
Bukowski, la vita trasgressiva ed estrema di Henry, un finale che spunta fuori a sorpresa, un linguaggio volgare. Ho letto da più parti i riferimenti alla beat generation…
“Beh parlare di beat generation è molto presuntuoso da parte mia, me ne rendo conto. La cito spesso ma non per raccontarmi capace di attingere a quello scenario poetico. La beat generation in questo caso la cito per raccontare un certo modo di fare le cose, di stare al mondo, di parlare alle persone. Un certo tipo di estetica. Questo romanzo parla di uno spaccato di vita reale, il mio, colorato da tantissimi personaggi ed episodi di fantasia e lo fa appunto senza preoccuparsi dell’estetica e delle etichette. In quest’ottica la scrittura del libro è molto “beatnik”. Il finale forse vuole rappresentare una delle mie ambizioni più grandi. Non farei una lira di danno nel dire che “Ho bisogno di aria” è l’ennesimo sfogo… che da qualche parte deve pure sfogare…”
So che questa domanda per chiudere ti piacerà. Ma lamentarsi di continuo… di tutto… uno sport nazionale…
“Serve a partecipare a questo sport nazionale, fatto di “lamentatori” seriali che aprono bocca a prescindere basta che si vomiti veleno sul paese. E quasi sempre ci si lamenta ipocritamente di quel che ha interessato solo il nostro stretto tornaconto. Nel libro Henry ha trovato la sua soluzione. Io rispondo: torno a fare arte e cultura, per il cuore, per la mera esistenza e solo per questo. Il resto se viene è un bel contorno che arricchisce e non qualcosa di indispensabile che costruisce e sostiene. Oggi apparire è divenuto addirittura il metro di valutazione per dare credito e spessore culturale e sociale alle cose e alle persone. Io non voglio dipendere dai giornali e dai social. La mia opera, per piccola che sia, esiste a prescindere e già per il suo esistere non ha da invidiare niente e nessuno. Esistere cercando di imparare e di diventare, di crescere. Vivendo per apparire si finisce con il morire dentro e fuori. Basterebbe spegnere la televisione… “