C’è chi chiude qualcosa nel cassetto per giorni, anni, a volte per sempre. Alcuni di questi poi i cassetti li aprono un bel giorno per sbirciare e darsi una parentesi di nostalgia. In pochi sono quelli che portano via pezzi di passato a cui dare nuova voce, nuova vita…un concetto forse anche attuale se guardiamo molti aspetti della nostra quotidianità consumistica. Ma parlando di arte e di musica i My Escort non hanno fatto solo questo…ma hanno permesso soprattutto di contaminare il passato con ciò che sono divenuti oggi. Il raccolto e il risultato è un bellissimo disco che hanno deciso di intitolare “Canzoni in ritardo”: sono 10 inediti alcuni dei quali scritti anche 16 anni fa come “Foglie e nebbia” che ha una strofa davvero incisiva e affascinante…un bel disco di quel pop italiano pregiato, raffinato, con quel giusto incontro tra melodie importanti e testi mai scontati per quanto il registro sia quello del messaggio diretto. Non è un lavoro che si perde in filosofiche ricerche di stile…è pulito con un arrangiamento che colpisce per maturità e sicurezza. Tra tutti sottolineo il brano “Qualcosa che non c’è”: credo che sia l’unico vero momento di sfacciato sapore internazionale di questo lavoro in cui l’Italia del bel canto incontra il gospel dei fiati in uno scenario quasi soul, quasi “Natalizio”…rubando qualche indiscrezione ai My Escort vi postiamo anche il video ufficiale del singolo “Riflessi” forse il brano più inquadrato del disco che ovviamente ha carte buone per giocare alla partite della radio. Ma non pensiate di poter etichettare il resto dell’ascolto dietro i canoni di un singolo come questo. Bello si…ma c’è molto altro ancora.
Amore e Crisi. Due aspetti che oggi sono determinanti nell’ispirazione artistica. Per voi è così?
Credo che l’artista o chi tende all’arte sia animato dalla necessità di raccontarsi attraverso le proprie esperienze e le proprie elaborazioni nate dalla vita che lo attraversa continuamente. L’amore e la crisi, che sia l’amore verso un ideale o una persona, che sia la crisi economica o quella correlata ad una rottura affettiva intensa, sono senza dubbio agenti turbativi per chi come un cantautore gode/soffre di ipersensibilità emotiva.
Certamente io non sono immune agli strali suddetti.
Tanti musicisti si sono alternati in questi anni a dar voce e veste ai brani del disco. Oggi avete ripreso quelle idee, quelle registrazioni o su quella base avete rifatto tutto da capo?
La stratificazione succeduta all’alternanza di cui parli ha a volte creato degli spunti da cui partire per nuove elucubrazioni; spesso le tracce dei singoli strumenti sono assolutamente differenti, soprattutto quando si tratta di musicisti diversi. Del resto, gli arrangiamenti sono stati creati minuziosamente in armonia con il gruppo di persone che in quel momento stava suonando assieme. Noi che abbiamo la possibilità di ascoltare tre registrazioni risalenti a tre ere ben distinte (Luca Pernici 2009/2010, Ronan Chris Murphy 2011, Matteo Franzan 2013/2014) sentiamo di fatto canzoni 3 canzoni diverse pur con lo stesso titolo.
L’unica cosa che lega l’inizio con la fine dei lavori è l’anima che pervade i brani.
Dite che sono “Canzoni in ritardo”: quindi secondo voi l’istante da immortalare è quello ricco di storia e di contenuto?
Sono in ritardo perché le parole che le raccontano sono originate da riflessioni avvenute quando le storie prese in esame erano finite.
Nel disco quindi non sono stati immortalati istanti, ma periodi, anche piuttosto lunghi, attraverso dei dialoghi o rammentando una serie di momenti che messi in fila creano dei piccoli spaccati di vita. Il senso del lavoro è sottolineare l’importanza di essere sempre presenti a sè stessi, in ogni momento e l’ineluttabile verità dietro la spesso amara consapevolezza che nessuno potrà mai ridarci il tempo perduto.
Ok, siete arriva anche se in ritardo. Sarebbe stato meglio sbrigarsi prima o comunque va bene così? In altre parole, cos’è accaduto o cosa avete perso con la pubblicazione ora di questo disco?
Onestamente non lo so. Parto dal presupposto che ogni scelta fatta, lascia dietro di sè insondabili sliding doors, vite parallele su cui ovviamente sarei curiosissimo di poter sbirciare. Certamente, quando operiamo delle scelte, anche superficiali od inconsapevoli, riteniamo quasi sempre che sia la cosa giusta da fare. Questo non significa che si tratti della scelta migliore, ma quasi sempre si tratta dell’unica scelta per noi possibile in quel dato momento.
Ciò dovrebbe sollevarci in parte dal giudizio pesante che siamo soliti assegnarci a posteriori.
È chiaro che essendo noi tutti molto importanti di fronte allo specchio, ammettere un errore pesa tantissimo; significa perdere di volta in volta dei punti, apparendo umani, fallibili. Da qui la paura di sbagliare che finisce a volte col degenerare nell’immobilismo, che è comunque una scelta, per quanto demandata ad altri o semplicemente al fato. Si tratta di un modo ipocrita per non guardare la nostra immagine riflessa, per sentirci meno colpevoli.
Rispondendo alla tua ultima domanda: ho perso la possibilità di aprire delle porte, perdendo assieme la possibilità di scoprire cosa avrebbero potuto celare.
Elettronica e futuro: il vostro pop rock ha tenuto conto anche di questo? E in che misura?
Sì certo, l’elettronica è assolutamente presente nel disco. In modo massiccio per quanto riguarda la sua registrazione, in modo molto più discreto per quanto riguarda i suoni sintetici utilizzati per affiancare i musicisti in carne ed ossa.
Non ho mai amato, ad esempio, replicare elettronicamente gli archi o i fiati. Preferisco di gran lunga servirmi di persone in quel caso. Mi succede anche nella scelta dei materiali di casa: non utilizzerei mai del gres porcellanato per imitare il legno, tanto per dire.
Però, sento talvolta il bisogno di qualche suono sintetico, di qualche tappeto particolare e non mi tiro certo indietro.
Questo comporta però una certa difficoltà nel replicare il disco dal vivo senza avvalersi delle basi, togliendo quell’aura di live “in purezza”.
Abbiamo risolto riarrangiando completamente i brani in acustico nelle occasioni che ci vedono calcare i palchi di locali molto intimi e avvalendoci invece delle sequenze quando affrontiamo stages importanti.
Al di là di un chiaro ritorno a certe sonorità vintage, io sono a favore dell’utilizzo di tutto ciò che permetta di esprimere al meglio un’idea. Un Fender Rhodes può certamente stare a braccetto con l’uso sapiente dell’elettronica, in qualsiasi genere.
Chiudiamo con una curiosità: la musica si sagoma per apparire al meglio o si mette in scena quello che avete costruito indipendentemente? Siate sinceri…che oggi siamo nell’era della comunicazione e dell’immagine…
Siamo musicisti estremamente onesti e trasparenti. Quando siamo in sala prove non ci siamo mai preclusi nulla, non ci siamo mai imposti durate, genere, suoni o linguaggio.
Siamo coerenti e nel tempo abbiamo raggiunto un’identità che a mio avviso è riscontrabile molto chiaramente in ciò che portiamo live.
Quando ci confrontiamo con un produttore artistico, il prodotto che ne esce deve piacere a tutti, non solo a lui e del resto, la scelta di un produttore nasce prima dalla conoscenza che abbiamo di lui e da un gusto che noi di base cerchiamo. Siamo anche molto aperti alle critiche se chi le pone è per noi autorevole e da sempre, il motto che si sente più spesso in sala prove è: “mai affezionarsi alle proprie parti”. Siamo convinti che tutto possa essere migliorato, in qualsiasi momento. Al tempo stesso è importante saper mettere un punto, per evitare, stavolta anche in senso letterario, che le Canzoni, oltre che in ritardo, non arrivino proprio più.