Un titolo assai strano al suono, alla pronuncia: “Petricore”, primo lavoro di inediti per Daniela D’Angelo che certamente non ha una carriera nuova alla scena italiana. Disco dal titolo che raffigura una nuova nascita probabilmente, un nuovo inizio ma che in fondo custodisce canzoni di una fine, di un amore incerto, di cattivi pensieri e sensazioni negative da cui prendere distanze, difendersi, combattere. Un disco personale ma forse anche pubblico per molti aspetti. E di sicuro il suo pop d’autore è adeso ad un buon gusto per la ricerca, l’avanguardia, alla personalità che cerca vie tutte individuali e sa come riuscirsi in più occasioni dell’ascolto. Canzoni sghembe, canzoni senza forme quotidiane, canzoni sospese quasi figlie del tempo assurdo che vivono. Da oggi anche il primo video estratto che troviamo a seguire.
Un titolo decisamente strano nel suono e nella forma. Di cosa parliamo?
La parola ha stupito anche me, quando per la prima volta l’ho sentita. È andata così: Ivano (Rossetti, il bassista che suona con me live e che ha suonato anche nel disco) una sera viene a casa mia e mi dice che ha trovato questa nuova parola “petricore”. Io gli chiedo cosa voglia dire e lui risponde che è la parola usata per definire l’odore della terra bagnata appena qualche goccia di pioggia tocca il suolo. Mi piace raccontare questo aneddoto, perché è da lì che è scaturita la decisione di dare questo nome all’album e io ho anche scoperto una parola nuova. “Petricore” ricorda anche per assonanza un cuore di pietra… che era un po’ come si sentiva il mio cuore dopo un periodo molto difficile, di cambiamento profondo.
Che poi questo profumo di terra bagnata, sembra davvero la visione di un momento prima o un momento dopo di un grande evento, di una tempesta… questo disco suona così secondo te?
Sì, questo disco e le sue canzoni sono nati nella tempesta, nel cambiamento, all’insegna di grandi addii e ribaltanti inizi. Infatti, per me, è proprio così che ci si sente appena si alza il petricore dalla terra: sull’orlo di un grande evento.
Un esordio personale… cosa ti ha spinto a questa dimensione?
Di fatto in Petricore si parla di addii e di cambiamenti nelle relazioni umane. Anche questo cambiamento di dimensione fa parte del quadro. È come se a un certo punto, per eventi esterni (e interni), si sia creata la necessità di smettere di delegare e prendere in mano la mia musica, avendo scritto sempre testi e melodie delle canzoni. Poi… mi sono accorta che la definizione ‘solista’ è solo una definizione… ho comunque continuato a collaborare con gran parte dei musicisti che suonavano con Distinto (la mia ex-band) e anche il lavoro con Vito Gatto alla direzione artistica era già stato in parte rodato negli anni passati. Forse la differenza sta nell’essere finalmente alla guida del carretto, al posto di lasciarsi trainare a rimorchio. 🙂
A livello di sound e arrangiamenti, desideravo capire fin dove si sarebbe spinta la mia natura molto cantautorale, appunto chitarra e voce, insieme al percorso di Vito, che ha virato in parte lontano da questa direzione, verso la composizione elettronica, in aggiunta all’esperienza di Guido (Andreani) che ha lavorato con praticamente quasi tutti i mei miti (la lista è lunga!). Quello che ne è scaturito è il prodotto di tutti questi fattori messi insieme e credo che rifarei… tutto!
E poi “Esercitazioni” resta figlia della tua pelle nuda, della tua creatività d’origine. Perché?
“Esercitazioni” è una canzone talmente concentrata e legata alle mie origini (è stata scritta quasi vent’anni fa…) che non poteva essere altrimenti. Per me è come un agglomerato ad altissima densità di informazioni, è quasi come fosse un pezzo di DNA da cui si potrebbe ricostruirmi interamente. Mi piaceva l’idea che rimanesse intonsa, esattamente com’era stata concepita, diversa dalle altre. Addirittura, io volevo metterla come prima traccia, come fosse un manifesto, ma poi abbiamo scelto di tenerla custodita e protetta all’interno del disco e penso sia giusto così. ‘Esercitazioni’ parla della nostra distanza dai maestri e dalle stelle e del fatto che, a qualunque punto della nostra esistenza, non sappiamo mai cosa diventeremo; perciò, la sua essenza grezza rappresenta ancora quello che sono: un essere umano in divenire.
Qualcuno cita l’America come riferimento artistico. Io penso sia assai apolide come disco. Tu dove punti il dito?
Da oggi credo che prenderò spunto da questo concetto di ‘apolide’, intendendolo un po’ come ‘cosmopolita’ 🙂 La cosa bella è che non ho badato troppo a riferimenti o a cercare di ‘far suonare il disco come’, anche se inconsciamente e sicuramente ognuna delle persone che ci ha lavorato ha messo qualcosa del proprio background.
Alla fine di tutto, dopo il mastering (che è stato fatto da Giovanni Versari), Guido ha detto: “questo disco non mi ricorda nessun altro disco”. Questa frase è emblematica per me del fatto che non abbiamo razionalmente badato a come dovesse suonare, ma ci siamo lasciati trasportare fino alla fine dal disco, prendendoci del tempo (tanto!), facendolo decantare e lasciandolo spontaneamente prendere forma, con tutte le sue contaminazioni.