Di sola chitarra classica si nutre questo disco prezioso firmato dal compositore e chitarrista Andrea Cavina. Si intitola “10 Lettere” e pensate a quanto romanticismo e quanti messaggi sociali che mi piace rintracciare: già tutto parte dal suono di una chitarra classica che da sola apre scenari immaginifici di un peso poetico antico e anacronistico. Poi Cavina decide di rivolgersi a grandi nomi dell’arte, della tecnica, della cultura in generale… a loro scrive lettere, composizioni che inseguono quel preciso linguaggio ma anche quel preciso mondo di appartenenza… sempre e comunque riletto dalle sue mani e dalle sue corde. Un disco delicatissimo, prezioso, che ogni ascolto, neofita o competente che sia, sarà capace di codificare in una direzione decisamente personale ed unica.
Dietro ogni parola di una lettera c’è un pensiero, una decisione, un bisogno. Che le parole qui siano le note è cosa assai ovvia. Quanto hai pensato su come sceglierle e come incastrarle?
Questa è una buona domanda, grazie! È buona, perché tiene in considerazione il lavoro che c’è (e ci deve essere!) dietro ad un prodotto artistico. Ed è vero: questo disco è nato per delle necessità. La spinta maggiore è arrivata dalla voglia, finalmente, di percorrere una via personale, diversa da quelle che normalmente si seguono.
Da una parte ho avuto voglia di staccarmi da ciò che viene chiamato “repertorio” e dall’altra ho provato a pensare alla chitarra classica come uno strumento in grado di riprodurre atmosfere che potessero evocare un pianoforte, una rock band, o un’orchestra.
Non ho pensato in modo “chitarristico”, ma ho provato a trascendere lo strumento. Segovia, e dopo di lui altri grandi, diceva che la chitarra è “una piccola orchestra su sei corde”. Ecco, il mio intento è stato quello di seguire questo tipo di pensiero.
Se mi chiedi quali scelte stilistiche ho effettuato, invece, posso rispondere che, essendo il mio primo lavoro solista, ho raccolto molti anni di esperienze, emozioni, idee e tanto altro. Mi sono ispirato a musicisti del presente e del passato che, tra loro, in comune hanno (o hanno avuto) due caratteristiche: il dialogo con le persone e l’innovazione.
Non vedo differenze di intenti tra Mozart e Maurizio Colonna, tra Turlough O’Carolan e Andrew York, o Ludovico Einaudi. Mi piace il modo di scrivere dei compositori giapponesi; una delle mie lettere è dedicata a Joe Hisaishi, il compositore delle musiche dei film di Miyazaki, ma tra i chitarristi-compositori, anche se non l’ho citato nel mio album, si trovano notevoli opere, ad esempio in Hirokazu Sato.
Il titolo dell’album, “10 lettere”, vuole essere una “restituzione” di quello che ho ricevuto sia musicalmente, sia emozionalmente dagli artisti “destinatari” delle mie lettere. La lettera in sé porta anche il concetto di “corrispondenza”, termine con due valenze: quella fisica, della ricezione e della risposta, ma anche quello della vicinanza, dell’affinità, dell’intesa.
Il solo lavoro di composizione è durato un anno, tra il 2017 e il 2018. Poi sono successe molte cose fino al 2021 (non parliamo, per ora del 2020). Tra tutte, un meraviglioso incontro proprio con Maurizio Colonna, dal quale ho appreso moltissimo sia dal punto di vista strumentale, sia per quanto riguarda la gestione del mio album.
Ci sono state composizioni che hai rivisto mille volte nella scrittura? Qualcuna di queste è arrivata ad una conclusione che però non ancora ti soddisfa?
Se guardiamo i piccoli dettagli, ben più di una, ma se parliamo di una che mi ha dato parecchio filo da torcere, quella in particolare c’è. Si tratta di “Studiando Van Gogh”, un brano assolutamente sperimentale in cui ho provato a cimentarmi su diversi piani tecnici e compositivi. É una lettera dedicata a due artisti del passato, il compositore e pianista spagnolo Federico Mompou e, ovviamente, Vincent Van Gogh.
Il primo è stato fondamentale per la parte introduttiva del brano, liberamente tratta da “Cancion” un pezzo che studiavo durante i primi anni di conservatorio e che mi lega a ricordi lontanissimi, mentre nella seconda parte ho tentato di costruire un’analogia tra la tecnica
pittorica di Van Gogh e la tecnica chitarristica del tremolo. All’inizio e alla fine ho inserito una frase sugli armonici che vogliono ricordare le notte stellata.
Come dicevo, ho avuto la possibilità di lavorare con un grandissimo maestro, Maurizio Colonna, al quale ho fatto ascoltare la composizione con molto timore, data la sua incredibile padronanza del tremolo! Colonna mi ha dato preziosissimi consigli, che ho seguito anche quando, rispetto alla mia prima stesura, mi ha suggerito di tagliare e/o modificare le parti meno efficaci. Aveva assolutamente ragione, ma ammetto che lavorare su questo brano è stato molto più faticoso rispetto agli altri. Ho imparato tantissimo e di questo sono assolutamente contento.
E cambieresti qualcosa col senno di poi?
Avresti dovuto vedermi la sera in cui ho finito di registrare. A caldo avrei voluto rifare tutto da capo! Il disco è stato registrato in un fine settimana, con dei turni di registrazione molto lunghi e serrati. Era il mio primo disco solista, dopo circa quattro anni di gestazione e volevo che fosse un buon prodotto. Temevo di aver fatto un disastro.
Invece, ascoltando il mix di un ottimo Giacomo Scheda e poi il master, curato niente meno che da Giovanni Versari, in seconda battuta mi sono riappacificato con il mio lavoro. Ora che il prodotto è finito ed è uscito pubblicamente, a qualche mese di distanza dalla presentazione ufficiale, lo ascolto finalmente volentieri e mi sembra (spero non solo per me) un buon lavoro.
Qualcuno ha evidenziato delle incertezze nelle esecuzioni. Premesso che non ho l’orecchio educato per percepirle, tu cosa ne pensi?
Vedi sopra. La pulizia di suono e soprattutto di esecuzione è un problema che affligge i chitarristi in particolare. E io non mi ritengo di certo una superstar della chitarra.
Idealmente mi sarebbe piaciuto il tocco alla Andrew York, talmente rotondo e pulito da non sembrare vero. Poi ho sentito Colonna e… accidenti! (lasciamo perdere il confronto con la precisione, che è un altra galassia) Colonna ha un suono vivo, a volte aggressivo, potente! A volte rinuncia alla nota “perfetta”, “accademica”, per coinvolgere l’ascoltatore in un vortice di emozioni.
Di certo non mi avvicino lontanamente alla tecnica di nessuno dei due, ma spero che la mia musica riesca più a trasmettere emozioni, magari un messaggio, che a stupire con la prestazione. Per i tecnici bisogna rivolgersi a chi suona perfettamente il grande repertorio. Ce ne sono tanti. Mi viene da fare un paragone con uno dei più grandi cantanti italiani di sempre e mi chiedo… oggi, uno come Lucio Battisti, avrebbe vinto, che ne so, X-Factor? Eppure…
E secondo te sarebbe stato opportuno aggiungere la voce di qualche altro strumento per rendere al meglio ogni “parola” delle tue lettere?
No, questa volta no. Nonostante alcuni brani siano ben compatibili addirittura con un testo cantato, ad esempio Partenze o anche Alba, questo lavoro è stato concepito e portato avanti come solista. Era, prima di tutto, una mia necessità. Ora che il disco “c’è”, tuttavia, penso che potrebbe essere molto interessante proporre altre versioni dei miei stessi brani.
Pur con un filo conduttore, le 10 lettere hanno ognuna una personalità propria. Mi piacerebbe una trascrizione pianistica per Aria, una con quartetto d’archi per La nanna di Giovanni, ma Vento nella foresta la proporrei ad una band metal, perché una chitarra sola, per quella, forse non basta…
A conclusione dell’ascolto mi resta, se posso, tanta solitudine. Di quella preziosa, romantica, contemplativa. Non so cosa ne pensi…
Ah, però! Che commento! Beh, il brano conclusivo è proprio il già citato Studiando Van Gogh, che potrei anche definire un notturno, come avrebbero scritto i romantici, quindi sì, molto contemplativo. Non avrei saputo inserire un finale diverso. La scaletta del disco segue un percorso. Potrebbero essere le fasi di una giornata o di un anno, o, senza pretese da “guru”, di una vita…
In questo senso sì. Mi è già stato fatto notare qualcosa di simile. La solitudine è uno spazio libero in cui ci si può muovere, si può osservare, esplorare, concentrarsi. Si costruisce molto nella solitudine. Il mio stesso viaggio, che mi ha portato a scrivere un album solista, durante l’atto compositivo ha avuto bisogno di solitudine. Non ce l’avrei fatta in un modo diverso. Ripensando ai momenti in cui scrivevo i brani, mi sono sentito come Giovanni Soldini, o Alex Bellini, soli in mezzo all’Oceano. Loro hanno fatto grandi imprese. Uniche, direi, in solitaria (ma non in solitudine). Grazie per questa bella domanda e per l’intervista!