Sembra un puzzle di belle cose, di forme che poi si smembrano dentro forme più piccole, un vero collage di estetiche e sensazioni diverse che poi confluiscono in un unicum finale. E l’unico vero filo conduttore penso sia proprio l’appartenenza come luogo dentro cui riconoscersi, dentro cui ritrovare una ragione valide per essere così come si è. E dal blues alla canzone popolare passando per la bossa e la lingua inglese, Alcunelacune (al secolo Andrea Ricci), torna in scena con un disco personale che porta con se anche la poliedrica carriera di cose e di suoni e di nomi che hanno costellato e dunque costruito non solo il suono ma anche e soprattutto la forma del suono di questo disco. C’è tanto da raccontarsi dentro e noi cerchiamo sempre di pescare dal fondo un parola buona che mostri questo disco oltre le immagini di copertina. E c’è un gran mondo dietro…
Torniamo a dar voce ad un disco di cui avevamo sentito parlare qualche mese fa. Oggi viviamo un tempo strano, di fretta, di ascolti rapidi, forse troppo… i dischi dopo poche settimane sono “vecchi”. Un tempo non era così. Cosa ne pensi e come ti poni davanti queste dinamiche di “rivoluzione estetica” del tempo?
Esatto. Il tempo. Non a caso il mio disco si chiama Coolage. E’ il tentativo di slegarsi dal tempo, di viaggiare in modo non lineare, prescindendo dal prima e dal dopo, dal davanti e dal dietro. In effetti la tua domanda mi ha fatto riflettere. Forse il mio disco era già vecchio prima di uscire per certi versi. Forse chissà non può invecchiare. I dischi che amo di più, ancora più dei film, non invecchiano mai. Purtroppo siamo noi ad invecchiare. Ci intorpidiamo e facciamo più fatica a trovare il modo e, appunto il tempo, per avere i brividi.
Un disco come “Coolage N.1” in qualche modo ha cambiato un po’ la tua percezione della musica? Cioè, ipoteticamente, un “Coolage N.2” che forma avrà?
Sicuramente pubblicare questo disco per me è stata una svolta. Una presa di coscienza. Una liberazione. Dopo le esperienze con band tra cui Vallanzaska, Solidamòr, e altri gruppi, erano parecchi anni che non pubblicavo musica, che non facevo sul serio. Per lungo tempo ho scritto, composto e suonato più che altro per me stesso o per pochi amici. Ho accumulato materiale, preso parecchi appunti. Ma la scimmia non mi è mai passata e ho sempre sofferto il fatto di essermi allontanato dalle sale prova, dagli studi, dai palchi. Il lockdown probabilmente mi ha fatto sentire più vicino a chi invece non aveva mai smesso di fare musica. Chiuso in casa ho anche avuto molto più tempo per scrivere e suonare; e poi in quel periodo a Milano c’era tanto silenzio. Io amo il silenzio. Soffro molto il rumore del traffico, la frenesia. Lontano dalla routine ho avuto modo di capire che avevo accantonato una parte troppo importante di me e ho deciso di rimettermi in gioco, per la prima volta da solista (anche perchè mettere su una band oggi sarebbe impossibile).
Ovviamente ero pieno di dubbi e sentivo le mie “alcunelacune”. Il COOLAGE mi ha permesso di coinvolgere amici che mi hanno aiutato a colmarle. Manfredi Perrone ha scritto e collaborato alla scrittura di alcuni dei testi; Gianluca Mancini (mio vecchio compare nei Vallanzaska), mi ha accolto nel suo Mai Tai Studio. Poi c’è l’amico Donato Brienza (chitarrista provetto) che salta da un limite all’altro e mi aiuta a spostarli sempre più in là. A tutti loro devo dire grazie. Riguardo al nome: per “definizione” Coolage non può essere finito; e anche se questo fosse l’unico disco con questo titolo o l’unico che faccio in assoluto non potrebbe chiamarsi COOLAGE e basta. Ovviamente io spero di poterne fare altri. Ho già materiale a cui sto lavorando. Canzoni e musica che scalpitano… Ma non so dirti se un eventuale secondo disco si chiamerà “Coolage n.2”. Magari si chiamerà Carlo, Patrizia o magari direttamente “Coolage n.3”.
Penso che tu debba molto al passato e ad un suono americano. Non so se ti ritrovi dentro questa mia impressione. Cosa mi dici? E nel caso, che legame hai con quello scenario?
Ovviamente io attingo dal futuro. Scherzi a parte. Io penso di avere un debito con tutta la musica che ho ascoltato in particolare quando ero distratto. Ho legami affettivi con tanti generi. Con il jazz e la bossanova di cui mi nutriva mio padre quando ero piccolo. Con Rod Stewart, incontro fortuito diventata colonna sonora delle vacanze in Grecia con i miei. Con gli adorati Beatles. Con i Rolling Stones (il primo concerto a cui sono stato in vita mia allo Stadio San Paolo – D.A. Maradona – di Napoli nel 1982. Avevo 10 anni!) Con Pino Daniele, Edoardo Bennato e Fabrizio De Andrè che sono i primi che ho ascoltato con il mio walkman. Con la musica in levare di cui ho fatto scorpacciate ai tempi dei Vallanzaska. Con i Mano Negra e Manu Chao, i Loro Faboulosos Cadillacs, i Clash che mi ispiravano quando ho fondato i Solidamòr. Con Bowie, Dylan, Johnny Cash, Amy Winehouse,… troppi… Davvero non so a chi devo cosa. Ma sarò loro eternamente grato comunque.
Ho sempre trovato ostico orientarmi dentro un disco inglese da una parte e italiano dall’altra. Ho come l’impressione che non voglia vendere una sua identità precisa. Forse un mio limite… tu come la vedi?
Probabilmente è un limite di entrambi. Per me la musicalità viene prima; le parole sono suoni. Devono suonare bene. Spesso questo mi rende molto difficile la scrittura dei testi soprattutto se sono da solo. Per fortuna su vari pezzi del disco ho collaborato con un caro amico, Manfredi Perrone, che invece sa scrivere. Va da se’ anche il resto della risposta. L’inglese per certe cose suona meglio. Resta il fatto che Manfredi ha scritto 2 dei testi in inglese. Lui ha vissuto negli Stati Uniti, parla un ottimo inglese. Peccato che alla fine canti io…
Che poi esiste una dimensione comune ai brani e la ritrovo nel concetto di “illusione”. Un po’ come cambiare punti di vista, angolazioni… sbaglio?
Esattamente. Coolage è il tentativo di tenere insieme elementi diversi nella speranza di scoprire un disegno più ampio che abbia senso guardato da lontano (nello spazio e nel tempo).
Coolage è l’occasione per dare un senso a tutte le strade, i paesaggi, i momenti e le persone che incontro. Io mi sono rimesso in gioco musicalmente perchè ne avevo bisogno. Ero pieno di dubbi ma sentivo l’esigenza di superare i miei limiti. Fare musica si presta perchè mi mette in relazione con gli altri e gli altri sanno spesso aiutarmi a colmare le mie lacune. Tu chiamala se vuoi “illusioneeee”.