Un ascolto che merita attenzione e suscita doveroso interesse. Il come sia possibile mescolare la tradizione cantautorale italiana e francese, all’America di scenari western con quel piglio sociale che non guarda solo e soltanto il proprio circondario ma cerca comunque di mescolarsi come può. Un disco che prima di tutto oserei definirlo sociale. Ugo Russo ovvero RUSSO AMORALE fa il suo esordio con “EUROPE” che già dal titolo ci regala un ventaglio di chiavi di letture davvero gustose. Italiano, francese, inglese in un intreccio coerente ed educato, composto, nei suoni sporchi di ruggine e imbrattati di sabbia del deserto. Un artista che alla Bologna della controcultura deve sempre tanto e che in qualche modo subisce il fascino di un certo modo di contaminarsi di libertà espressiva che arriva dall’epoca beat degli anni ’60. E forse non è proprio un caso se questa copertina che si piega ad unire lembi e geografie lontane, in qualche modo ci richiama quell’Amerigo gucciniano tanto amato… dalla “sinistra” bolognese. E i riferimenti non sono politici ma spirituali…
Quante cose… tantissimi i luoghi in cui indagare… partiamo da questa copertina che un poco richiama “Amerigo” di Guccini. E per tanti versi, estetiche a parte, non siamo poi tanto lontani vero?
È vero, me ne sono accorto solo dopo ma la copertina di « Europe » ricorda molto quella di Guccini. Si tratta sicuramente di una citazione inconscia, dato che « Amerigo » faceva parte della collezione di vinili di mio padre. In realtà l’idea della copertina mi è venuta dopo la lettura di un saggio di Bertrand Westphal, « La geocritica », la cui teoria letteraria prende spunto dall’analisi degli spazi geografici. Per quanto riguarda Guccini, a parte la somiglianza della copertina, se hai individuato richiami artistici ti ringrazio per l’accostamento lusinghiero.
Bellissima l’idea di avvicinare i bordi di una cartina per avvicinare luoghi e persone. E in qualche modo, questo disco e il suo suono in particolare, pare voglia avvicinare anche culture underground diverse e lontane tra loro… non credi?
Sicuramente, ci sono varie influenze musicali nel mio album: c’è del blues, ci sono delle ballate folk, c’è del noise… Influenze che rimandano pur sempre alla grande famiglia del rock. Non penso si possa parlare di underground per il mio lavoro, o almeno non era il mio obiettivo fare un disco di nicchia o « indie ». Prima di tutto perché non significa granché, e poi perché in un certo senso le mie influenze sono molto classiche: ascolto tante altre cose, ma le mie radici musicali sono quelle, sono un rockettaro e va benissimo così. Non mi andava di inserire suoni elettronici messi un po’ a caso come fanno in tanti « per fare figo ». Non credo che la modernità vada cercata a prescindere, è un obiettivo illusorio e si rischia di scimmiottare più che creare. Volevo scrivere un album di canzoni, come uno può decidere di incidere un album di jazz o di canti gregoriani.
Tre poli distanti. L’America, la Francia, l’Emilia. E non è un caso che non abbia detto l’Italia. Tu come artista, dove vorresti vivere?
Vivo già tra la Francia e l’Emilia, aggiungere l’America sarebbe bello ma forse un po’ più problematico per gli spostamenti. La situazione francese offre forse di più per i musicisti con regimi speciali ma per strani motivi ho deciso di cantare prevalentemente in italiano… Quindi mi sa che rimarrò qui, almeno per ora.
Zamboni, Bologna, Guy Debord, Brassens… cosa c’entra il deserto americano in tutto questo?
C’entra, eccome. Volenti o nolenti, l’America fa parte del nostro immaginario occidentale, è l’altrove per eccellenza nella forma mentis europea. Le controculture, dagli anni 60 in poi, sono state alimentate prevalentemente dall’America, nel bene e nel male. Chiedo scusa per il name-dropping ma c’è chi l’ha detto molto meglio di me, cioè Deleuze e Guattari in Millepiani: «Resta il fatto che tutto quello che è accaduto d’importante, tutto quello che accade d’importante procede per rizoma americano: beatnik, underground, sotterranei, bande e gangs, spinte laterali successive e in connessione immediata con un di fuori. […] E le direzioni, in America non sono le stesse: all’Est si fanno la ricerca arborescente e il ritorno al vecchio mondo. Ma l’Ovest è rizomatico, con i suoi Indiani senza ascendenza, il suo limite sempre fuggitivo, le sue frontiere in movimento e spostate. Tutta una « carta » americana all’Ovest, dove anche gli alberi fanno rizoma. L’America ha invertito le direzioni: ha messo il suo Oriente all’Ovest, come se la terra fosse divenuta rotonda proprio in America: il suo Ovest è la frangia stessa dell’Est.»
E oggi, che la società non reagisce più, ha senso parlare ancora di controcultura?
È una domanda molto complessa, non credo di essere in grado di rispondere in queste poche righe. Questo posso dire: le controculture esistono e esisteranno ancora, sono una parte vitale della nostra società; internet, il femminismo, le ZAD (« zone da difendere ») in Francia… Ci sono ancora molte realtà e avremo sicuramente bisogno di nuovi fermenti culturali, nei prossimi anni, per cercare di immaginare un futuro in quello che si preannuncia come una svolta epocale.