Torna Alessandro Zannier, torna OTTODIX, tornano le sue visioni, l’elettronica raffinata e un poco retrò, il piglio estetico della produzione di Flavio Ferri e quell’occhio sociale che in qualche modo ha sempre attinto dalla scienza la chiave e la metafora più opportuna per raccontare chi siamo e cosa sta accadendo al nostro universo sociale. OTTODIX pubblica “Entanglement”, che rappresenta in fisica quella correlazione quantistica tra particelle distanti tra loro. Un viaggio nel cuore dell’uomo potremmo dire, di 9 canzoni e 5 brani strumentali che fanno da ponte concettuale… un disco che si sospende, dove l’estetica del riff non è il padrone della scena ma dove le liriche pungenti di OTTODIX e quel fascino fluido di un suono sempre puntuale confermano la scrittura che ci attendiamo di guardare illuminata a giorno… perché l’arte di Zannier va assorbita nella totale celebrazione dei sensi.
Ritrovarsi dopo qualche anno, dalle particelle elementari al macrocosmo terrestre delle connessioni umane. La prima domanda è: la prima grande scoperta che hai portato a casa dopo questo “viaggio”? Hai ritrovato e descritto le connessioni che conoscevi o ne hai inventate/scoperte di nuove?
“Entanglement” è un figlio diretto di “Micromega”, indaga quello che era il suo livello 6 di grandezza, la Terra. “Planisfera”, la canzone che lo rappresentava, mi è stata d’ispirazione per sviluppare un intero concept geo-storico. Un viaggio alla Jules Verne tra i continenti, gli oceani e le zone polari alla ricerca di tutte le connessioni umane, dalle rotte navali antiche e moderne, alle migrazioni, alle esplorazioni e alla colonizzazione, fino alle connessioni web. Quello che ho capito e portato a casa da questo viaggio è che viviamo nell’iper-intreccio globale, dove causa ed effetto sono sempre più immediate da una parte all’altra. La pandemia che stiamo vivendo è l’esempio perfetto di questo pericolo enorme, ma vale per inquinamento, economia, fake news, radioattività, malattie. I luoghi remoti saranno le future mete ambite, le intercapedini disconnesse, le isole del silenzio (poche) rimaste.
Come in “Micromega”, cerco lo schema comune, la regola scientifica, il motivo nascosto che possa spiegare certi problemi, o certi macroscenari apparentemente caotici e sfuggenti. Quel lavoro mi ha insegnato la pratica dello “zoom”; quando non capisci bene una cosa è perché ci sei dentro fino al collo, vedi solo una porzione del tutto. Zoomare al di fuori è salutare, spesso fa cogliere la visione d’insieme uno schema nelle cose che da dentro ti sfuggiva. Spostare il punto di vista. In questo, l’album “Entanglement” (…e il principio fisico che si cela dietro questo nome) è identico a Micromega come intenzioni; cerca di applicare una legge fisica all’apparente caos delle cose, per indagarne un senso d’insieme sfuggente. A me queste cose tolgono il sonno.
L’uomo è sempre stato un po’ il fulcro delle tue scritture. Perché? E non vuol essere una domanda estetica e superficiale… spero ti arrivi come deve…
Perché è il fine ultimo del messaggio. Perché sono un uomo, un individuo sociale anch’io e tutti quelli che mi circondano. L’arte deve occuparsi alla fine, di noi, non dei soggetti che rappresenta. Il tema di una qualsiasi opera deve sempre avere come secondo fine quello di indagare le problematiche dell’essere umano, se no non serve a nulla o si limita a riprodurre in modo artigianale e fine a sé stesso un soggetto. E comunque, vedendo la rapidità con cui ci stiamo evolvendo, anzi, involvendo, mi sembra anche antropologicamente interessantissimo da osservare. Essere artisti contemporanei oggi vuol dire scegliere sostanzialmente due strade: quella della fuga, dell’astrazione e dei silenzi minimali e ricreativi dello spirito (anche in musica, con l’ambient immersiva, la drone, le sonorizzazioni, le camere d’ascolto, quelle cose che io chiamo new age elettronica), spesso un po’ presuntuosa e snob, e quella che affronta il toro per le corna cercando di analizzare e capire le dinamiche attuali, della vita sui social, della violenza verbale, della semplificazione, delle bufale, della storia. Perché se si lascia sempre questo campo libero, regalato alla demagogia, l’arte e chi la fa diventa corresponsabile di essersene lavata le mani, perdendo tempo con cose auto referenziali.
E come sempre le copertine dei tuoi dischi sono significative. Parlaci di questo polipo gigante…
Innanzitutto è un iper-polipo, ha molti più tentacoli dei canonici otto. Rappresenta una minaccia che ti sta venendo incontro, rappresenta l’iper connessione globale che coi suoi tentacoli avviluppa il mondo intero e richiama anche al concetto fisico di entanglement (letteralmente “groviglio-intreccio”) e poi è il mostro marino per antonomasia, ricorda Jules Verne e 20.000 leghe sotto i mari, qualcosa di antico che riporta alla storia delle navigazione e al mare, il soggetto principale di questo viaggio intercontinentale. E per finire, effetto non voluto, ogni volta che lo guardo lo associo a questo dannato virus. Mi stanno dicendo in molti che è un album molto profetico, nei contenuti, ma a scanso di equivoci non l’ho scritto in quattro e quattr’otto per cavalcare l’onda emotiva della pandemia; è il frutto di 3 anni di lavoro ben ponderato.
Che poi a ripensarci più che alle connessioni, un polipo mi lascia pensare alle tentacolo soluzioni della vita quotidiana… non trovi?
Può essere, ognuno può poi vederci quello che trova. Io dal canto mio ho associato la piovra ai collegamenti e alle connessioni, che ci avviluppano in una morsa sempre più inestricabile, come ti dicevo. Che poi nel quotidiano tu ritrovi queste simbologie ci sta tutta. Diciamo che a volte vorrei essere un polipo multi tasking per riuscire a stare dietro a tutto.
Di nuovo Flavio Ferri. Per chiudere ti chiedo: perché replicare un cocktail (certamente pregiato) del passato invece di trovare nuove dimensioni?
Perché abbiamo solo iniziato a divertirci e a regalare cose. Con Flavio ho il problema opposto; farebbe ogni album estremamente diverso dall’altro, il conservatore, per certi versi sono io, che cerco di salvare un mio sound oltre che ovviamente la mia scrittura. Con Entanglement inizialmente ho voluto affiancargli un altro produttore italiano che vive a Berlino, per la parte elettronica delle sezioni drum& bass. Alla fine ci siamo trovati di fronte a un professionista che lavora un tanto al chilo e che dopo sei mesi non aveva ancora messo le mani su nulla, zero filosofia e tutto metodo. Non faceva per noi. Flavio è un produttore vecchio stampo, per fortuna, di quelli che attorno a un disco costruiscono una visione. Io poi, sono un visionario che porta già la descrizione di un mondo tutto mio molto delineato, quindi ci andiamo a nozze. O ci entri in questo gioco, o continui a fare progetti da una stagione, con i tuoi standard lavorativi e in catena di montaggo. Ho quindi dato a Flavio molta più carta bianca alle sue idee. A volte la spunta lui, a volte io. Lo trovo salutare perché lui sposta a me l’orizzonte delle visioni e io faccio capire a lui quali siano le cose nelle quali proprio non mi ci ritroverei e in quali so dare il massimo. Credo che con Flavio non sia affatto finita, anzi, stiamo solo iniziando a conoscerci meglio e probabilmente in un prossimo lavoro il suo peso avrà maggiore spazio ancora. Parliamo tanto, discutiamo in astratto, poi se la “filosofia” è chiara, ci si capisce anche in musica, senza aggiungere altro. Mi piace molto lavorare con lui, scontri compresi, perché sono tutti per il bene della musica e dell’arte, mai nulla di personale. E poi siamo gente che (lasciamelo dire) chiacchiera tanto, ma che alla fine FA!