Di solito ogni nuovo album dei Muse è uno degli appuntamenti più importanti di quella parte della mia vita dedicata all’ossessione per la musica.
Di solito, il giorno dell’uscita, è per me di rito trovarmi già davanti al negozio di dischi prima che apra, attendere pazientemente che il solito commesso digiuno di inglese, dietro mio spelling sia del nome della band che del cd, li trovi nel computer e poi finalmente l’ambita ricompensa: un’ ora di ottima musica.
Questa volta però le cose sono andate in modo diverso.
L’istinto, non so perché, sin dall’annuncio e dalle prime indiscrezioni su questo nuovo lavoro di uno dei miei gruppi preferiti, mi ha frenato l’entusiasmo.
Chiamatelo sesto senso, preveggenza o semplicemente buon senso, dato che dopo 4 album meravigliosi, un po’ me lo aspettavo che prima o poi i Muse avrebbero fatto cilecca, ma The Resistance non merita, o almeno non del tutto, epiche esternazioni di euforia come i suoi predecessori.
Come sempre, anche questa volta, le aspettative verso la band di Matt Bellamy erano molto alte, sia a livello commerciale che a livello qualitativo, dato che da Showbiz a Black Holes & Revelations infatti tutte le pubblicazioni del gruppo gli hanno fatto guadagnare, un sacco di soldi, molto entusiasmo, ma anche qualche perplessità, insomma non sono mai state accolte con indifferenza.
The Resistance, in questo senso, è partito nel migliore dei modi in termini di vendite, volando in testa alle classifiche di mezzo mondo, probabilmente grazie anche all’album precedente, Black Holes & Revelations, che aveva fatto conquistare ai Muse una più ampia fetta di pubblico.
Dal punto di vista più spiccatamente musicale, parlando quindi in termini di soddisfazione dell’ascoltatore, invece, rischia di essere un ibrido che non riesce ad accontentare appieno nessuno, dai fan della prima ora a quelli che seguono i Muse solo per singoli come Starlight.
Pur seguendo l’evoluzione stilistica che la band ha preso in questi ultimi anni, fatta di rock amalgamato con cura ad elementi di musica classica, con liriche degne di una sceneggiatura da film epico, questo disco la porta forse un po’ troppo all’estremo.
Un esempio è United States Of Eurasia, un brano pomposo, che risulta quasi messo li a caso con i suoi echi d’oriente e i continui rimandi agli inarrivabili Queen.
Certo, non tutto è da buttare, c’è anche qualcosa di piacevole, come il primo singolo Uprising, The Resistance e Undisclosed Desires, che sono pezzi ben riusciti, malgrado a tratti eccessivamente poppeggianti.
Tra pezzi discreti come Unnatural Selection o MK Ultra e altri un po’ così, Guiding Light e I Belong To You, si arriva a Exogenesis, una sinfonia in tre parti, che rappresenta bene un po’ tutto The Resistance: talmente barocca, eccessiva da stordire, quasi.
Insomma, sia che abbiano voluto lasciare spazio alla loro vena sinfonica, sia che abbiano voluto seguire la direzione più commerciale del disco precedente, che gli ha fatto conquistare un maggior numero di discepoli o che abbiano tentato un’evoluzione del proprio sound, il risultato finale lascia un senso di amaro in bocca, un’inevitabile e neanche tanto sottile insoddisfazione.