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KATIA PESTI: il cielo e l’abisso

Ho avuto modo di sfogliare tra le mani questo nuovo disco di Katia Pesti firmato RadiciMusic. Un oggetto elegante e enigmatico già dal suo aspetto estetico. In questo poi si nasconde un booklet composto da una sola pagina, piegato in più parti che se lo apri finisci per avere tra le mani il tutto visionario e il niente realistico, dalle immagini di un albero infinito sul fronte e alla traklist sul retro. C’è da indagare sulle origini di certe scelte, delle visioni e delle immagini, di come sia possibile che a circondare alcune parole sia un solo tratto di colore rosso e per altre uno spazio pieno di colore rosso. Ma la simbologia che spinge e fomenta la curiosità non è solo dedicata all’oggetto fisico. La musica della Pesti conduce in un mondo che potrebbe non essere figli di questa terra, conduce nelle caverne dove senti gocciolare le pareti, conduce nel vento e nel pieno azzurro del cielo. Conduce per mano l’ascolto di queste 13 composizioni di “Abyss” che non hanno appigli al comun sentire se non per qualche raro momento, come ad esempio questo video di lancio del brano “Humanity is Divergent”. Non serve sempre avere risposte a tutto…
Ascolto da giorni questo disco. In genere i progetti strumentali mi sottolineano la mancanza di una voce. A meno di non sentire musica classica o qualche colossal da film. “Abyss” mi fa star bene soprattutto perchè non c’è la voce. In quei rari punti in cui entra la voce quasi mi sento come ad avere ospiti in giro per casa…
Buoni amici certamente, ma comunque ospiti che dovranno andar via…

Parliamo proprio di “Fingerprint”: perché farne due versioni? Ed infatti la seconda mi fa star meglio lo sai?
In Abyss transitano due collaborazioni; la prima è del musicista africano Gabin Dabirè, la seconda Elaine Trigiani. La voce di Gabin Dabirè è incanstonata in Fingerprint e imprime alla musica un’impronta forte, come fosse il DNA dell’Africa. Ho suonato lo stesso brano in un’altra versione giocando sul timbro; stoppando le corde in un modo particolare per ottenere una sonorità che si avvicinasse al Koto, uno strumento della tradizione giapponese.

Ho trovato molta riflessione ma soprattutto diversi spazi aperti al silenzio. Cosa significa per te lo spazio da lasciare al silenzio? Mi fa pensare a John Cage…
Il tempo in relazione agli eventi.
Il silenzio è il tempo stesso che si sposta tra un evento sonoro e l’altro.

Parliamo di “Rips” o anche della intro di “Blood and Bone”: se ti chiedessi dentro quale antro ti stavi aggirando?
Mah, chi lo sa! Forse ero dentro l’orecchio di Dioniso, o in posto simile dove i suoni arrivano al nostro orecchio in ritardo, un po’ come quando ci appare una stelle cadente. Nel momento in cui la vediamo, la stella è già passata da migliaia di anni. Così il suono viene captato dal nostro orecchio quando è già sparito dal suo punto di origine.

Stavi cercando qualcuno in particolare?
Molecole… forse. Scherzo, naturalmente….

Hai mai pensato di associare delle danze a questo suono?
Recentemente, per la compagnia del Balletto di Roma, alla Stazione Leopolda, è andato in scena “ARCAICO” – Azioni coreografiche per cinque danzatori, pianoforte, percussioni e canto; uno spettacolo firmato dal coreografo Davide Bombana, nell’ambito del Festival Fabbrica Europa, con le mie musiche eseguite dal vivo e la voce di Gabin Dabirè.