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Donatella Moretti: un brano che graffia e che culla

Eccovi Donatella Moretti, voce storica del bel canto italiano. Oltre 50 anni di carriera per una regina storica della canzone leggera italiana. Per lei hanno scritto i più grandi che quasi sarebbe inutile citarli tutti. Parliamo di De Andrè, Gino Paoli, Gaber e compagnia cantando (nel vero senso della parola direi). Donatella Moretti non è una di quelle voci che puoi pensare di mandarle in pensione e l’incontro restituisce ancora un’energia di vita che da tanti miei compagni di viaggio, coetanei, artisti e presunti tali sembra essere qualcosa di raro da trovare. Parliamo di una donna, di una cantante, di un’artista che celebra in toto il concetto d’arte come spiritualità dell’incontro, come messaggio che va preservato dal qualunquismo dell’apparire e dalle superficiali regole della critica discografica di oggi. Incontrare l’artista Donatella Moretti è una doccia fredda sulla spina dorsale che mi sveglia dal torpore di questi burattini in fila a sbavare per la prima pagina di un giornale. Figli e fantocci di questo eterno apparire. Eppure, anche la storia lascia il passo all’innovazione, laddove per innovazione si intende mediocrità omologata a suon di futuristiche soluzioni digitali. E quindi via libera ai tanti modaioli di oggi e giù nelle ombre più scure progetti così importanti per la bellezza e la cultura italiana. Con Donatella si parla di tutto questo… cultura come incontro umano e spirituale. Queste sono parole importanti, che si ripeteranno spesso, parole che è sempre un dovere di felicità ripeterle.

Un passo, anzi dieci passi indietro: era il Sanremo del 1967. Donatella Moretti canta “Una ragazza”:

https://www.youtube.com/watch?v=KlQGvdhbKA4

Il salto è quasi generazionale. Arriviamo ad oggi perché è oggi che la scopro, la ritrovo, la conosco. L’amico e cantautore Luigi Piergiovanni con cui abbiamo condiviso tante musiche, tanti dischi e tantissimo lavoro, scrive per lei un brano che ha la forza di uno schiaffo e la dolcezza di una speranza: si intitola “Terra persa” e mi viene da leggerla quasi come una preghiera, con quelle organze delicate per farci riflettere con romanticismo e quegli spigoli acuminati che fanno male ai fianchi, che ci fanno svegliare (speriamo), che smuovono dal fango della televisione l’attenzione più che la coscienza.

“È lei, la terra mia / calda come una fiaccola / fredda come una tenebra / mi coccola, mi illumina / è lei, la terra mia / dolce come una fragola / persa come una nuvola / smarrita ormai, tristissima”

Donatella ci tiene a precisare che il canto di queste parole non vuol puntare alla denuncia, alla condanna. Non è presunzione o diritto di poterci fare una qualche morale. Eppure potrebbe dico io…
Invece il suo è un canto di rabbia sincera che però alla rabbia lascia solo la forza di colorare i dettagli tra le righe e le note. Il suo canto vibra e si poggia con mestiere (tanto mestiere) e delicatezza – nonostante la rabbia c’è il peso di una piuma. Ecco la ricetta che tramuta la rabbia in speranza. Il canto inizia citando la costituzione e lo fa quasi come si “rimprovera” a qualcuno ricordandogli la verità, che si svegli questo qualcuno… guardate, sembra dirci, guardate in quale fosse ci stiamo ficcando!!!

“C’è un libro che ho / che parla di noi / di un mondo che ormai / mi scivola si sgretola”

E la magia di questa speranza si compie proprio con questa stessa frase: “C’è un libro che ho / che parla di noi.”
Ecco la chiusa della canzone. Sarà il ricordo della costituzione ad essere un appiglio di nostalgia per tutti, un doveroso appiglio di nostalgia. Che sia la salvezza? Ecco da dove veniamo… e quella ragione ancora persiste ed esiste. Abbiamo dunque la chiave per uscire da questa crisi che un poco è di fango e un poco delle volte si scansa per mostrarci il colore vero della terra.

“È lei / la terra mia / calda come una fiaccola / fredda come una tenebra / mi coccola / mi illumina…”

Personalmente sottolineo un passaggio e rifletto molto sul mio vissuto. Sono di quelle cose che alla fine sappiamo, ma sentirsele dire non è che sia proprio indolore:

“In queste città / dipinte da un cielo blu / di odio e di povertà / si lotta ormai, per vivere”

Piergiovanni confeziona il brano che troviamo sui canali digitali in una veste ovviamente digitale. Ovviamente dico, perché il nostro è quel famoso ROSYBYNDY che per lungo tratto della sua produzione ha sposato la musica digitale come soluzione ed estetica. Ma a Donatella Moretti concede anche il lusso di una facciata più classica, come a celebrare le sue origini. Ed ecco il video e la versione del brano arrangiata e suonata dall’orchestra del Maestro Luigi De Angelis.
Anche questa doppia faccia, un agrodolce urbano di periferia elettronica contro il soffice velluto d’accademia di archi e di spartiti. Un contrasto distopico forse, oppure semplicemente doveroso. Una doppia faccia come sono due le sensazioni che arrivano dalla lettura e dall’ascolto. Rabbia e speranza. Una terra persa che in fondo conosco e riconosco sotto il fango dell’indifferenza di oggi.

Da quel Sanremo 1967 facciamo un salto di qualche anno… giunto una manciata. Eccola oggi anche se alla fine, drogati da questo mare di banalità digitale che tanto sono mitizzate dai media di tutto il paese, ho la sensazione che si sia perduto il gusto della canzone e del suo ascolto, del testo, della poesia.
“Terra persa” va misurata, lettera per lettera.

Ci vuole tempo.
Ci vuole un fermo immagine sulla crosta delle cose che crediamo importanti.