Musica di confine mi è piaciuta definirla… perché pare proprio che ci si spinga allegoricamente verso un confine di grandi regioni temporali ed estetiche per raggiungere la forma di questo suono e di queste scritture. Attingendo dalle grandi scuole, certamente, ma sempre verso derive di stile e di contaminazione che mettono in luce una personalità volutamente dedicata ai dettagli e alle misure delle piccole cose. “Linear Burns” è il nuovo disco di D.In.Ge.Cc.O. – all’anagrafe Gianluca D’Ingecco – compositore, producer in bilico tra filosofia e suono, tra letteratura (anche prodotta) e narrativa espressa fin dentro il singolo beat. Il compito per casa è recuperare il tempo anche per immergersi in un viaggio in cui le sliding doors della nostra vita divengono oggetto di nostalgia… immaginare quindi il come e il quando e poi, di conseguenza, il come sarebbe stato. “Linear Burns” diviene esperienza a suo piccolo modo…
Mi piace molto il concetto di porte straniere, magari anche ignorate, scansate per aprirne altre, magari quelle più vistose… quali sono le tue foreign doors?
Le porte straniere sono le porte più difficili da aprire. Sono quelle porte aldilà delle quali si trova sempre un’incognita e di fronte all’incognita si ha sempre timore. Sono le porte che, per essere aperte, necessitano di grande forza di volontà. Sono quelle porte che possono condurti ad una vita migliore, le porte del “ah, se avessi fatto quella scelta…”. Sono le porte che ognuno di noi non riesce ad aprire perché non ha la forza di mettersi o rimettersi in gioco. Le porte delle possibilità lasciate per strada, delle libertà che non vuoi avere, le porte che avresti sempre voluto aprire ma che, alla fine, non hai mai avuto il coraggio di aprire perché ti convinci del tuo falso incidente, per dirla con una celebre canzone di Bennato. Ognuno durante la propria esistenza deve fare i conti con le porte che non ha aperto.
Per quanto mi riguarda le mie porte straniere sono quelle porte che mi hanno fatto varcare la soglia delle certezze, ovvero quelle porte, aldilà delle quali, si annidavano le mie passioni, quelle porte che mi hanno fatto vedere quanto sia importante non smettere mai di cercare se stessi.
Per associazione di idee mi vengono in mente “le porte della percezione” di Aldous Huxley, libro che ha ispirato il nome dei DOORS di Jim Morrison e tutto il movimento beat degli anni 50-60. In quel caso Huxley descriveva il viaggio psichedelico, che l’uso della mescalina aveva provocato nella sua mente e nella percezione delle cose, come una realtà alternativa, ma pur sempre una realtà. La metafora dell’apertura delle porte della percezione era un atto fondamentalmente di egocentrica ribellione assolutamente nichilista, verso una società, quella occidentale, che stava già schiacciando ogni forma di anomalia al suo sistema.
Oggi credo che, per aprire le nostre porte della percezione sia necessario, invece, agire all’interno della realtà che viviamo, senza cercarne una alternativa psichedelica generata da sostanze allucinogene. E’ una rivolta completamente diversa da quelle nichiliste del passato, perché è più consapevole e fondamentalmente, più politica, nel senso che è una presa di coscienza sulla necessità che il sistema in cui viviamo va cambiato perché ha dato già prova della sua debolezza e sta dimostrando di non reggere più. Ti faccio un esempio. Guarda quanto il tema ambientale appassiona sempre più i giovani. Guarda come si sta parlando sempre più di un’economia sostenibile e più a misura d’uomo. E’ il sistema che cerca di cambiare dal suo interno ed ha come protagonisti soprattutto i giovani, spesso molto meno sprovveduti di quello che crediamo. Forse è in fieri un altro 68 che spero abbia una sorte migliore di quello che fu. I rivoluzionari di quel tempo sono finiti tutti a fare i professori universitari e questo la dice lunga.
Ma tornando al nostro tempo, alla nostra epoca, io sono convinto che ognuno di noi sia in grado di aprire quelle porte straniere che si porta dentro a patto di prendere coscienza di questo cambiamento necessario alla sopravvivenza del genere umano. Credo che ognuno di noi sia in grado di tornare a guardare in faccia se stesso e di dedicarsi di più alla ricerca del significato della propria esistenza. Da questo elemento di rottura verso i modelli che ognuno di noi ha subìto e che hanno modellato il nostro destino, nel bene e nel male, può nascere una nuova scala di valori e di modelli di riferimento da cui, poi, discendono tutte quelle scelte più politiche a cui facevo riferimento prima. Per cambiare il mondo, prima di tutto, bisogna cambiare le coscienze…Ma la sto facendo un po’ troppo lunga e mi sto inerpicando in un terreno scosceso e dai connotati troppo filosofici…torniamo a noi!
La vita di tutti i giorni è fatta di porte e di scelte. Hai dedicato molta carriera alla ricerca anche inseguendo i luoghi. Cosa pensi di aver messo da parte?
Per risponderti a questa domanda ci dobbiamo rituffare nel discorso precedente e a gamba tesa per giunta. A parte le battute, io credo che la ricerca sia alla base dell’esistenza di ogni individuo. Prima tra tutte la ricerca di se stessi. Seguire una road-map fatta di tante scelte quasi dovute e scontate, dominata dal giudizio degli altri, senza fermarsi, anche solo per un attimo, a pensare, a dove si sta andando, credo impoverisca ogni esistenza. Ognuno poi vive come meglio crede, per carità, ma la diversità dei modelli di vita e di pensiero costituisce una risorsa immensa per ogni comunità e per ogni civiltà. Non credo che l’umanità sia sempre costretta a vivere e ad organizzarsi allo stesso modo. E tornando alla tua domanda, è proprio nella vita di ogni giorno che dobbiamo fare le scelte giuste, per noi stessi e per il prossimo. Avere il coraggio di aprire le porte che non abbiamo il coraggio di aprire e sentirci ogni giorno “altro” da quello che eravamo ieri. Credo davvero che siamo all’alba di un nuovo umanesimo che grazie anche alla tecnologia ci porterà ad un modello di società completamente diverso da quello di oggi. Quello che dobbiamo sforzarci di fare è tentare di cambiare le nostre abitudini, soprattutto mentali, tentare di cambiare il nostro modo di pensare, i meccanismi che lo regolano.
Non sarà facile ma, come ti dicevo, ci sono tanti segnali che vanno nel verso giusto. Mi chiedevi cosa pensavo di aver messo da parte in questa mia ricerca. Ecco, questa consapevolezza che cercavo di spiegarti nel discorso precedente. La consapevolezza che non si finisce mai di cambiare e di stupirsi andando alla ricerca di se stessi. I luoghi che visiti, con il corpo e con la mente, i luoghi dello spirito, mantenendo quest’approccio, non possono far altro che arricchirti umanamente, culturalmente, spiritualmente.
Perché sono lineari le ustioni? Titolo davvero visionario, un po’ come spesso sono i titolo dei tuoi lavori.
Quando si fa musica strumentale, come la musica elettronica, spesso può servire molto arricchirla con dei titoli che possono dare l’idea dell’immaginario da cui sono nate alcune evocazioni sonore. Un po’ come nell’arte concettuale è importante inquadrarne il contesto storico e dare una spiegazione per poterla comprendere a pieno. In quest’ottica mi è sempre piaciuto dare qualche indizio su quella che è stata la mia fonte d’ispirazione di un brano musicale strumentale e l’unico modo per farlo è attraverso il titolo, un giochino creativo e di capacità di sintesi che credo sia molto interessante e che molti, mi dicono, mi sia riuscito sempre bene.
Nel caso di “Linear Burns”, tuttavia, non credo proprio che siamo di fronte ad un disco di “arte concettuale” anche perché, in fondo, “Linear Burns” è un lavoro molto più orecchiabile di quello che sembra e questo volutamente.
E’ stata una scelta quella di voler dare risalto alla struttura armonica e melodica, un po’ come si faceva una volta (vi ricordate le grandi melodie di Vangelis?), per creare delle vere e proprie canzoni. Canzoni di musica elettronica, naturalmente, ma che potrebbero mantenere la loro struttura originaria ed il loro impatto emozionale, anche se realizzate acusticamente.
Sono convinto che il panorama di gran parte della musica elettronica alternativa o dance-jazz alternativa, per intenderci, sia ormai saturo di ripercorrere le orme di quella tendenza stilistica, divenuta ormai mainstream, legata ad uno schema compositivo armonicamente e melodicamente monocorde. Mi spiego meglio, tante produzioni di musica elettronica, anche di successo e di critica, oggi nascono e muoiono nel tempo di un ascolto. Questo perché sono prive di qualsivoglia elemento narrativo e caratterizzate più dall’effetto ambientale che riescono a produrre, che da quello emozionale. E’ vero che la musica elettronica è anche musica, per così dire, “d’ambiente”, ma così si corre il rischio di racchiuderla in una nicchia troppo stretta, incapace di evolversi e di tentare di fare un salto di qualità verso una visione un po’ più emozionale e di ripercorrere le gesta della musica elettronica degli anni 70-80, che riusciva ad essere, a suo modo, avanguardia ed al tempo stesso, fruibile e riconoscibile da chiunque.
Ma torniamo alle “Linear Burns”: sono quelle ustioni che ogni emozione, negativa o positiva, riesce ad incidere nell’anima, (e che di conseguenza, anche se impercettibilmente, si riflettono anche sul corpo). Queste bruciature indelebili sono lineari se generano un equilibrio. E questo accade se vengono assimilate, comprese, se si sono rimarginate, così da poterne fare tesoro.
Infondo tutta la musica si regge sull’equilibrio. L’equilibrio che, magari, si rivela all’improvviso, studiando suoni e armonie, usando drum machine e sintetizzatori, agendo sulle frequenze e le tonalità dei suoni.
Oppure quell’equilibrio che scopri, scavando nella memoria, quando ti rendi conto che, in passato, un genere musicale o una semplice canzone ti sono piaciute così tanto da lasciare una traccia indelebile dentro di te, dentro il tuo immaginario sonoro. Poi senti la necessità di evolverti, fai esperienze, la tua sensibilità cambia e magari ascolti altro e trovi un altro stile o modo di rappresentare, in musica, delle emozioni e questo nuovo percepire ti lascia un altro segno indelebile e così via. Devo riconoscere che tra le varie rappresentazioni visionarie che, la musica, mi ha lasciato dentro, ho trovato sempre una linearità, un equilibrio, appunto, che anche tra generi musicali o stili opposti e apparentemente contrastanti, ha trovato sempre un legame con un filo conduttore.
In tutto questo hai cercato te stesso? L’hai trovato? I suoi suoni rarefatti non sembrano dire questo però… ma forse la nostalgia è altra…
Si, a volte sono riuscito a trovare me stesso. Capita raramente, quando meno te lo aspetti, ma capita. Tuttavia quando sei immobile e fermo non può capitare, ti devi comunque sempre muovere per trovare o ritrovare te stesso, anche se in pochi e determinati momenti della tua esistenza. Ma non è un cammino che ha una meta quello della ricerca interiore, è un cammino che sempre si rinnova e prende strade diverse.
I suoni rarefatti sono una rappresentazione di questa ricerca interiore di questi percorsi mutevoli, dei sentieri scoscesi e cangianti e sono anche una rappresentazione della nostra civiltà, piena di rumori, di suoni che si confondono, che si mescolano, che non ci lasciano mai soli e che forse, proprio per questo, creano nuove tipologie di solitudini, moderne e contemporanee.
Linear Burns è ricco di questi suoni rarefatti in tutti i brani ma, forse, il brano dove si manifestano di più, in tutta la loro purezza, o impurità ( a seconda dei punti di vista), è I Met Myself (but you’re gone). In questo brano, in particolare, c’è anche tanta nostalgia, è vero, è la nostalgia per la perdita di un carissimo amico, un fratello direi, che è venuto a mancare ad appena 40 anni di età, proprio mentre stavo ultimando la stesura degli ultimi due brani di Linear Burns. Una mancanza per la quale ho sofferto molto e che mi ha segnato davvero. Questo fatto ha ritardato la lavorazione del disco, perché sai, a volte c’è bisogno anche di silenzio nella vita. Poi, quando ho ripreso a lavorare al pezzo, ho sentito l’esigenza di reimpostare tutta la struttura armonica di quel brano e di liberare tutto quel senso di vuoto che mi aveva lasciato dentro quella perdita improvvisa, quel senso d’ingiustizia, quella sensazione di precarietà dell’esistenza e di malinconia per ciò che eravamo stati nel nostro percorso temporale di conoscenza e amicizia e per quello che non avremmo mai più potuto condividere e che non saremmo potuti mai più diventare. Credo ne sia uscito uno dei brani più intensi dell’intero LP o comunque tra i più particolari.
Devo però specificare che il tema della nostalgia, in verità, l’ho sempre vissuto positivamente, con gli occhi di chi ricorda i momenti felici, ma deve anche trovare la forza di dire addio a questi momenti felici. E questa visione si ritrova molto anche in “I Met Myself…”. I momenti felici sono quelli che ti hanno fatto apprezzare la vita e la sua bellezza e ricordarli con tristezza, non gli renderebbe giustizia. Quindi la nostalgia si trasforma in qualcos’altro: in meravigliosa malinconia del vivere, ed è attraverso questa meravigliosa malinconia del vivere che riesci ad abbracciare te stesso e, facendolo, impari non solo ad amare il prossimo e l’intera esistenza, ma anche a volerti bene, una cosa che è sempre più difficile al giorno d’oggi.
Ho percepito molto – ma è ovviamente una mia percezione – che stai cercando una dimensione “parallela” al quotidiano… sbaglio?
Ti confermo che è così, ma una dimensione parallela intesa, non come fuga dalla realtà ma, piuttosto, come una sveglia per la coscienza. La dimostrazione che un’alternativa è possibile. È possibile un’alternativa all’ansia generata da una società competitiva, sempre alla ricerca del risultato, sempre a fare i conti con le scadenze, sempre più invasiva della tua sfera privata, sempre più incurante nei confronti della sensibilità delle persone e, di conseguenza, di ciò che la sensibilità, di ognuno di noi, può dare per favorire la crescita di una comunità di individui.
Il tuo posto nel mondo non può essere esclusivamente il tuo posto nel sistema produttivo. Il tuo valore, come persona, come individuo, non può essere esclusivamente misurato dal tuo ruolo all’interno di una visione esclusivamente economica dell’esistenza o dal posizionamento che riesci a raggiungere sulla scala sociale. Tuttavia, ricollegandomi alle cose che dicevo prima, sono convinto che stiamo vivendo l’alba della nascita di un nuovo umanesimo ed il tramonto di un’idea di società che ha dimostrato non essere più capace di garantire un benessere diffuso e un equilibrio tra le componenti di un tessuto sociale sempre più diversificato e complesso. L’importante, in questo momento storico, è di non credere che per cambiare le cose, si debba necessariamente tornare indietro mettendo in discussione delle conquiste di civiltà ormai inalienabili, oppure chiudersi in integralismi di varia natura, perché, così facendo, rischiamo di fare regredire, il genere umano, pericolosamente.
Bisogna rivendicare il grande valore di una società sempre più multiculturale e sempre più attenta a tutelare le diversità tra gli individui. Una società costruita su una visione economica più solidale e più sostenibile, attenta al rispetto dell’ambiente e che abbia a cuore l’obbiettivo di costruire un modello che sia sempre più a misura d’uomo.
Ecco questa è la mia visione e la mia idea di progresso e il mio auspicio per il prossimo futuro.
Alla fine credo che questo desiderio di multiculturalità e di apertura verso il prossimo, si possa percepire chiaramente anche nella mia musica, come anche si percepisce l’aspetto un po’ sognante che tende a trasportare l’ascoltatore attraverso varie fascinazioni emotive, attraverso delle dimensioni parallele, come dici tu.
In fondo, la musica, questo deve fare, deve far sognare e ricordare alla mente ed all’anima, che siamo fatti anche di spirito. Sono convinto, altresì, che la musica, in verità, può fare molto di più. E chiudo, non a caso, con una citazione di uno dei grandi profeti della musica del ventesimo secolo, Bob Marley, il quale aveva una convinzione e cioè che la musica può davvero rendere gli uomini liberi.