Nuovo disco per Aban, MC leccese che torna sulla scena con un lavoro dal titolo “Rap inferno”, esplicito come dichiara già dalla sua faccia di copertina… e di questa esplicita dichiarazione di intenti con tanto di bollino per i genitori, ci arriva l’intelligente cinismo con cui il nostro si prende gioco e inchioda l’ipocrisia pubblica e privata che si manifesta ogni volta che si sfoggiano morali buone.
“Rap inferno” sputa veleno sulla discriminazione, sulla minoranza spesso riferita all’arte, alla musica… i lupi solitari di Aban sono gli ultimi che si costruiscono succhiando dalla vita ogni centimetro di asfalto e di esperienza, senza mai chiedere niente in cambio… dall’altro canto troveremo i consueti “figli di papà” capaci di pagare dischi d’oro e targhe patinate. Sputa sulla politica di un sistema sincronizzato attorno alle major di ogni settore e mi teletrasporta in quegli anni ’90 delle periferie, dei bar e delle strade di quartiere dove davvero c’era energia pura da cui trarre linfa vitale. E se la copertina del disco richiama il metallo pesante di mostri sacri, il suono è come la sua voce: rauco e acido, sicuro e deciso. Un substrato quasi dub che raramente si concede melodie popolaresche se non forse in solitari momenti precisi come la bellissima “Come un clan” o l’altro singolo estratto che è “C’è qualcosa che non va”.
E poi un faro puntato sul brano “Anfibi di cera”, condanna a morte per il razzismo ultimo, preistorico, vivo e vegeto anche in questo tempo del futuro… un brano particolarmente “delicato” (le virgolette qui sono opportune) dove si devia appena dal solito dialogo di questo disco e gli arrangiamenti promettono una didascalica narrazione di assurdo e di stonato: c’è qualcosa sottopelle, sottobraccia, c’è qualcosa che non va in questa vita nostra e il brano sa come renderlo visione quasi senza disturbare dentro un suono di pianoforte dissonante e solitario anch’esso. Bellissimo anche questa soluzione di basso che chiude la metrica e restituisce un che di favolistico al tutto.
E forse è proprio “Un lupo” o la precedente “Bullshit” il vero cuore concettuale di tutta l’opera, il vero destinatario del rap sincero di Aban: sono gli ultimi che Faber cantava in altra guisa e che il nostro qui cerca di celebrarne il merito ripulendo la verità di facciata da tutte le maschere di chi è schiavo della omologazione di massa. Gli artisti di oggi ormai, tutti immediatamente bravi, perfetti, famosi subito, santi altrettanto. Alan è un lupo solitario quindi, avvolto dentro il fumo dei peggiori bar, tra i quartieri del nostro sud… solitario per il grande pubblico ma con attorno una famiglia di giganti artisti e anime pulite (alcune delle quali troviamo nelle featuring del disco) che ovviamente, come lui, non sono illuminati dalla televisione commerciale. E a forza di omologazione quanta bellezza stiamo perdendo lungo il cammino…