Un LP che vive in bilico tra quel kitsch borghese di ostentazione estetica e il contenuto contro-culturale che si fa beffa delle omologazioni. E Marco De Annuntiis ha l’anima da sovversivo e controcorrentista di massa. Come a dire che questo disco dal titolo “JukeBox all’Idroscalo” è un documento di identità di tutta quella che è la sua carriera artistica, tra sceneggiature di esistenze a parodie artistiche da smontare. Pubblica un disco aderente al pop per comunicare con tanti ma figlio di quella beat generation che faceva dell’eccessivo libertismo l’unica vera direzione di stile. E lui alle forme sembra badare come nel singolo “Shavette” o come nella più rock noir “Borderline” in compagni della femme fatale Ilenia Volpe. Ma lui si fa beffa anche della spocchiosità alto borghese vestendo i panni di una nobiltà decaduta dedita all’alcool e poi stracciandoli decidendo che i miti non sono quelli da consacrare in nome di una sola facciata estetica. E si immette anche in rischiose vie anti-popolari camminando sui carboni ardenti in quella doppia lettura che possiamo dare alla canzone dal titolo “Come De André”… carboni ardenti, sfidando il popolo quotidiano e spronandolo a fare meglio di questa comoda omologazione di massa. E sono d’accordo, quasi completamente, pensando a quanti esaltano i miti come De André conoscendo probabilmente appena soltanto qualche titolo di qualche canzone famosa. Ma tanto ormai basta leggere i titoli per fari i tuttologi non è così? E dunque non è tanto il mito quanto la mitologia la vera pratica da condannare oggi. “Jukebox all’Idroscalo” è pubblicato da INTERBEAT e Cinedelic e lo troviamo ovunque… in digitale, cd ed Lp. Resta da trovare il tempo di volersi mettere a dialogare con e contro le prime impressioni.
Voglio lasciarti carta bianca perché tu possa condividere con noi delle riflessioni. Ti lancio delle frasi poi vedi tu come interpretarle. Ma penso proprio avrai le chiavi giuste. La prima cosa che mi viene in mente è l’America e l’Italia ma negli anni ’60. O forse anche la Francia…
In Italia arrivavano molte più canzoni francesi negli anni ’60 di quante ne arrivino oggi: e viceversa, anche. La scelta stessa di aprire il disco con una cover di Serge Gainsbourg tradotta in italiano è un omaggio non solo a lui, ma a tutta un’epoca (quella dei jukebox appunto) in cui questa pratica era normale.
Però devo anche dire che in realtà il mio è un disco dallo spirito post-moderno: ho adottato soluzioni desuete (l’organo Farfisa al posto dei pad elettronici) per distinguermi dalle produzioni correnti, ma non con l’idea di fare un “falso storico”: sono canzoni attuali.
Un modo di cantare che è in bilico tra ironia, parodia, critica sociale…
L’ironia è un’arma a doppio taglio, perché non tutti la capiscono e perché confonde il pubblico, si chiedono se ci fai o ci sei. Mi sta bene correre il rischio, anche se in realtà credo di essere molto serio in quello che faccio. Mi piace giocare con le parole, è il mio mestiere, ma è appunto un gioco e non uno scherzo.
Alcool a fiumi dentro le note di questo disco…
In realtà l’ingrediente principale del disco sono le sigarette, nel senso che non solo mi aiutano a scrivere ma senza il fumo non avrei nemmeno la stessa voce. Poi nel “Blues della Renault” e in “Vita privata di Sherlock Holmes” parlo anche droghe più pesanti, ma questo è un altro discorso. La foto di copertina è scattata dentro casa mia e quindi si intravedono non solo i miei veri libri, ma anche il pacchetto delle sigarette che fumo e la marca delle bottiglie che bevo. Ce n’è per ogni momento della giornata: l’aperitivo, il digestivo, l’afrodisiaco… Naturalmente non mi hanno pagato per farlo, è solo per il gusto di contraddire la dittatura del politicamente corretto.
E per restare in tema di ingredienti… pop… rock… acidità controllata…
C’è molto beat, del blues, della psichedelia, della chanson… Sono molti i generi che mi appartengono, ma io non sento di appartenere veramente a nessuno di essi. So che può sembrare presuntuoso, ma credo che il disco lasci intravedere solo un 20% del mio mondo. Spero di dimostrarlo quando farò il secondo.
Di questa società in cui tutto segue le regole… e in questo disco in cui si gira lo sguardo altrove…
Mi tocca di nuovo fare l’esempio delle sigarette, perché è paradigmatico: il fumo è diventato un tabù, completamente rimosso dalla vita pubblica. Una volta sia i politici che i cantanti fumavano in televisione, adesso lo fanno di nascosto; e se si fanno così tanti film ambientati negli anni ’70 è solo perché è l’unico pretesto per mostrare stili di vita più liberi e più comodi. Il mio disco è come un ristorante in cui fumare è ancora permesso: se dà fastidio, ci sono diecimila altri locali.